Da Charlie Parker a Bruno Canino, da Chet Baker a Domenico Scarlatti, passando per George Gershwin e la musica folklorica romana. In occasione di un suo recente progetto dedicato alla figura di Gershwin, abbiamo avuto il piacere di incontrare Enrico Pieranunzi per una lunga e stimolante chiacchierata, ripercorrendo insieme la sua carriera ultra- quarantennale.
All About Jazz: Quali sono le affinità che la legano a George Gershwin?
Enrico Pieranunzi: Ci sono molte cose che mi fanno sentire vicino a questo straordinario musicista. In particolare la sua "doppia vita" di musicista classico e jazz, e il suo essere praticamente autodidatta per quel che riguarda la composizione. Personalmente ho iniziato prestissimo gli studi musicali, prendendo lezioni di solfeggio e seguendo un corso di pianoforte da privatista. Allo stesso tempo imparavo da mio padre le prime forme del jazz. Una doppia anima musicale che si ritrova anche in Gershwin, al di là ovviamente del fatto che lui fosse americano e io europeo e, naturalmente, che lui fosse... Gershwin.
Più in generale sento verso di lui una grande affinità poiché Gershwin fu sostanzialmente un musicista "empirico," e perché in lui lo strumentista e il compositore erano praticamente due personalità inscindibili. Un altro aspetto che me lo fa sentire vicino è l'origine sociale. Mio padre, chitarrista, e mia madre provenivano entrambi da famiglie romane tipicamente popolari e anche Gershwin aveva un'origine low class che gli consentiva di comprendere la forza della musica popolare. Guardare il mondo dal basso può rendere molto più acuta del normale la capacità di percezione ed espressione dei sentimenti.
E poi c'è stato il contatto diretto con la sua musica, che è avvenuto molto presto. Quando avevo intorno ai sette anni mio padre era solito mettere sul mio leggio gli spartiti di canzoni americane, tra cui ovviamente quelle di Gershwin. Credo che il primo pezzo scritto da lui che imparai a suonare sia stato "Fascinating Rhythm." Mi piaceva anche moltissimo il blues da "An American in Paris," che pure leggevo al piano. Non so se questo fosse un segno del destino... Comunque è curioso che tanti anni dopo abbia ripreso in mano questo pezzo e realizzato la trascrizione.
AAJ: Quali aspetti ha voluto estrapolare dalla sua musica?
EP: Le trascrizioni non sono state un lavoro semplice. Riguardo "An American in Paris" si trattava di ridurre un brano scritto per grande orchestra, cioè per un organico di molte decine di persone (e senza pianoforte in orchestra...) a tre soli esecutori. Ma credo di aver vinto la sfida... Allo scopo ho utilizzato tre fonti diverse: la partitura orchestrale, la versione per due pianoforti che Gershwin stesso aveva approntato all'epoca della composizione (1928) e una buona versione per pianoforte solo, realizzata pochi anni dopo da William O’Daly, amico e prezioso collaboratore di Gershwin. Va ricordato che "An american in Paris" nasce come poema sinfonico (sul frontespizio della partitura originale Gershwin ha scritto tone poem), vale a dire come un racconto o, ancora meglio, come un immaginario film in musica. Questo carattere intenzionalmente descrittivo consente, appunto come in un racconto o in un film, di operare tagli e aggiustamenti narrativi, e di strutturare o ristrutturare la storia in maniera diversa rispetto all'originale. È appunto quello che ho fatto, concedendomi in più il lusso di inserire, poco prima della fine del brano, una mia cadenza originale in "stile Gershwin," in cui i tre strumenti in organico, violino, clarinetto e pianoforte, dialogano fra loro.
"Rhapsody in Blue," a differenza di "An American in Paris," l'ho voluta mantenere integrale. La parte di pianoforte è priva di tagli mentre, ovviamente, per la trascrizione della parte orchestrale ho dovuto lavorare di immaginazione e di consapevolezza, tenendo cioè ben presenti le caratteristiche timbriche dei due strumenti a disposizione. Credo che, nonostante la drastica riduzione di organico, l'identità potente di questo brano leggendario sia rimasta intatta e questo è per me un elemento di soddisfazione. Il merito, però, è ovviamente tutto della musica geniale composta da Gershwin per l'occasione.
Nonostante le critiche che un altro gigante della musica nordamericana come Leonard Bernstein fece a Gershwin riguardo la sua abilità formale posso dire, proprio grazie alla frequentazione assidua e necessariamente approfondita che il mio lavoro di trascrizione ha richiesto, che "Rhapsody in Blue" è costruita con una sapienza istintiva senza uguali e rimane un esempio unico di autenticità e originalità di espressione. È veramente l'atto fondativo di una nuova musica, quella moderna americana. Un atto esteticamente così rivoluzionario che lo stesso Bernstein non poté, a dispetto delle stesse critiche da lui formulate, non tenerne conto e giovarsene per le sue opere, soprattutto per West Side Story.
Il vero problema riguardo Gershwin, per concludere questo excursus su un personaggio che meriterebbe una trattazione molto più ampia, nasce dalla difficoltà ad accettare che fosse un genio autodidatta. Si vuole a forza affermare che la sua non-formazione accademica fosse un minus mentre, chissà, questo era tutt'altro che un elemento di debolezza, come snobisticamente si tende a pensare. Inoltre la fusione di linguaggi musicali che la parte "seria" della sua produzione propone fu assolutamente consapevole, come dimostrano alcuni articoli da lui firmati in cui, in maniera molto lucida e appassionata, egli parla dell'operazione che ha condotto. Non stiamo cioè parlando di un naïf di talento che ha casualmente dato vita ad alcuni brani musicali di successo, come alcuni credono o vogliono far credere, ma di un grandissimo compositore, orgoglioso del suo essere americano, che riuscì a trasferire splendidamente nella sua musica il mix di culture di cui lui stesso era portatore.
AAJ: Perché ha optato per le trascrizioni di Jascha Heifetz su "My Man's Gone Now" e su "Ain't Necessarily So"?
EP: Per rendere la serata gershwiniana ancora più interessante si è pensato ad una "geometria variabile" che offrisse varie combinazioni sonore. Così, oltre alle trascrizioni per trio delle due opere maggiori e dei preludi, abbiamo pensato di proporre altre situazioni. E le storiche trascrizioni per violino e pianoforte che Heifetz fece di diversi brani composti da Gershwin facevano perfettamente al caso nostro. Tra l'altro, sono particolarmente rappresentative perché Heifetz, fenomenale strumentista, era attivo negli Stati Uniti proprio quando Gershwin presentava al mondo i suoi capolavori. Quindi, al di là dell'interesse intrinseco delle sue trascrizioni, la sua visione di Gershwin è quella di un testimone prestigioso di quell'epoca irripetibile. L'idea di includere nel programma queste trascrizioni è stata di Gabriele, mio fratello, grande conoscitore del repertorio violinistico di ogni tempo...
AAJ: Sono trascorsi dieci anni dalla pubblicazione di Enrico Pieranunzi plays Domenico Scarlatti e sette anni da 1685 Enrico Pieranunzi plays Bach, Händel, Scarlatti. Quale rapporto sussiste tra jazz e barocco e, più in generale, tra classica e jazz, anche alla luce di un altro suo recente lavoro, Menage a trois, nel quale lei dialoga con le anime di Debussy, Satie, Bach e Schumann, all'insegna di rielaborazioni e improvvisazioni?
EP: In realtà le mie improvvisazioni nei primi due album che hai citato non sono assolutamente jazzistiche. Anche perché l'improvvisazione, come è noto, non è solo jazzistica ma appartiene a tutte le musiche, folk, pop, rock. E oltretutto è stata una prassi, comune in passato, nell'ambito della musica cosiddetta colta, fino a epoche recenti, in cui è stata utilizzata col nome di alea. A parte questo, nei lavori in piano solo di cui parliamo ho usato in realtà un approccio improvvisativo dalla forte connotazione compositiva, una sorta di ricomposizione in tempo reale. Per spiegarmi meglio, un procedimento simile a quello usato in pittura da Jackson Pollock, il cosiddetto Action Painting. Ecco, quello che ho cercato e cerco di fare col materiale barocco, anche in concerto, si potrebbe chiamare, similmente, Action Composing. È un'operazione fondata su una grande consequenzialità tematica, in cui l'obiettivo è sviluppare in tempo reale i materiali presenti nei brani creando forme musicali nuove, che abbiano però un nesso stretto con i materiali di partenza.
In qualche caso, però, nel registrare ho usato il procedimento opposto: ho iniziato improvvisando in modo assolutamente informale per poi "entrare" in una sonata, i cui elementi tematici fossero affini a quello che avevo trovato, appunto, con l'improvvisazione. In entrambi i casi, comunque, il linguaggio che ho utilizzato non è quello jazzistico ma quello della musica del Novecento, in particolare quello mutuato da due musicisti che ho sempre amato, Darius Milhaud e Paul Hindemith. Entrambi avevano un atteggiamento molto disinibito verso la tonalità ma, pur spingendo l'organizzazione dei suoni verso zone non convenzionali, mantenevano un rapporto molto fisico con i suoni stessi, evitando il rischio di devitalizzarli.
Usare questo tipo di vocabolario è stato per me un modo di evitare la banale "jazzificazione" dei brani, approccio che quasi sempre dà luogo a risultati artificiosi e sterili. È anche un procedimento che mi ha consentito di trattare con grande rispetto le strutture tematiche create dai geniali compositori, cui quei cd sono dedicati. Ménage a Trois rappresenta tutta un'altra storia. Qui ho usato brani provenienti da epoche più vicine a noi e il fatto di arrangiarli per trio mi ha consentito di svilupparli in una direzione sicuramente più jazzistica.
AAJ: Tornando con la mente alla sua gioventù, ai suoi studi accademici, a un ambito famigliare in cui la musica era aria di casa, può raccontarci o condividere con noi un aneddoto particolare che l'ha avvicinata al jazz?
EP: È cominciato tutto molto presto... Quando avevo cinque anni e mezzo mio padre intuì del talento musicale in me, seppur io non ne avessi alcuna consapevolezza. Così comprò un pianoforte, trovò una maestra da cui andare a lezione per il solfeggio e per i primi rudimenti di piano classico e, contemporaneamente, mi insegnò a casa i primi giri armonici, come quello del blues. Diciamo, forse un po' presuntuosamente, che non ho scelto la musica ma che, attraverso mio padre, è stata lei a scegliermi. La passione per il jazz poi è cresciuta rapidamente grazie ai dischi che c'erano in casa. In particolare mi innamorai di quelli di Charlie Parker e più in generale dello stile da lui creato, il bebop. Il suono del sax di Parker mi emozionava (mi emoziona ancora oggi!...) profondamente e quell'emozione intensissima fu il motore che mi portò a voler "decodificare" il suo linguaggio. È stato un processo lungo e non semplice, ma avercela fatta mi ha aperto possibilità espressive fondamentali in ogni direzione musicale.
AAJ: Ha avuto modelli anche in ambito più popular, come ad esempio nel rock, o esclusivamente in campo jazzistico?
EP: A parte gli input di tipo jazzistico e classico, di cui ho detto, c'è stato un terzo, non meno importante: la musica popolare romana. Mio padre scriveva delle bellissime canzoni romane, cantava anche molto bene. Molti forse neppure sanno che esiste una tradizione musicale romana folklorica. Invece c'è e ha una storia antica. Certo, è un po' sommersa, meno nota e diffusa, per esempio, di quella napoletana, anche perché non è stata mai esportata. Personalmente non ho mai avuto molto interesse per il rock. Al contrario ho sempre amato moltissimo il blues, anche nelle sue forme più commerciali, come il rhythm 'n'blues o il soul. Parlo quindi di Wilson Pickett e Otis Redding ma anche di Ray Charles, Aretha Franklin, Stevie Wonder). Insomma, purché ci sia dentro il blues va bene tutto. Mi piacevano poi i Beatles e sono un grande ammiratore di Sting.
AAJ: Roma nel 1975, negli anni dei suoi esordi discografici con New & Old Jazz Sounds e The Day After the Silence, e Roma oggi. Quali confronti si possono stabilire tra queste due realtà, a distanza di quaranta anni? Non solo in termini musicali, jazzistici, ma anche sociali e politici...
EP: Musica, società e politica erano realtà strettamente connesse tra loro a quei tempi. Era l'epoca del post '68 e tra noi giovani era diffusa l'idea che si potesse cambiare il mondo. C'era molta speranza. Io e i musicisti della mia generazione, come il mio grande amico Bruno Tommaso, o anche quelli leggermente più giovani, come Massimo Urbani, Maurizio Giammarco, Enzo Pietropaoli, Tommaso Vittorini, avevamo tutti un'energia positiva, un grande ottimismo. Ecco, forse la grande differenza tra ieri e oggi è la speranza di cambiamento, con tutte le conseguenze che essa comporta sul piano del fare, e anche la convinzione che la musica possa dare un contributo rilevante o significativo in questo lavoro di rinnovamento.
Oggi non mi sembra che tutto questo sia più intorno a noi. Ovviamente non sto rimpiangendo i tempi andati, ma è fuor di dubbio che il capitalismo (uso il termine non in accezione marxista, non sono mai stato un seguace delle teorie di Marx, anche se non credo abbia detto solo corbellerie...) eserciti una pressione e un condizionamento fortissimi sulla società. Chi vuole fare musica o arte prescindendo dalle logiche di mercato, è considerato un alieno, fuori dal mondo. A parte questo, direi che stiamo attraversando una fase di transizione e di mutazione senza precedenti, in cui sono diffusi, tra l'altro, luoghi comuni francamente risibili, tipo quello secondo cui la tecnologia, oggi come oggi, sarebbe neutra. È vero il contrario. Una rivoluzione tecnologica e informatica come quella in atto condiziona pesantemente il modo di fare musica, di comunicare la musica, di percepirla. È cambiata, anche in termini neurologici, la ricezione. Pensa che quando realizzo dischi di piano solo mi viene chiesto di non superare un certo minutaggio, perché altrimenti la gente può smettere di ascoltare...
I tempi di ascolto sono ormai cortissimi. Più in generale sembra che non ci sia più la possibilità di scoprire nulla. O, perlomeno, ciò che si scopre si rivela una finta scoperta, qualcosa che non si radica dentro il cuore, che viene utilizzata e buttata nel giro di poche ore. L'intensità della bellezza, la speranza che la bellezza può regalare, sembra essere oggi molto scarsa. Personalmente continuo a combattere lo stesso, perché per me la musica è sempre una scoperta, un mare infinito da esplorare. Tuttavia questa possibilità sembra essere vietata dal sistema. Sembra esserci una dittatura che ti dice quel che è giusto, quello per cui vale la pena emozionarsi, quello per cui non vale la pena emozionarsi o quello che va abbandonato in quanto non interessante.
Certo la ricerca è possibile ma quando la fai devi sapere che il prezzo da pagare è una grande solitudine, perché per prima cosa devi ignorare questa specie di comandi neanche tanto subliminali. Insomma, per rispondere sinteticamente alla tua domanda, direi che si vive in un altro mondo rispetto agli anni di quei dischi che hai citato...
AAJ: Dalle sue esperienze giovanili segnate dal bebop e da Charlie Parker, fino alla pubblicazione di album come Soft Journey con Chet Baker o Silence al fianco di Charlie Haden. Come hanno convissuto e come continuano a convivere nella sua musica il funambolismo caratteristico del bebop parkeriano e l'intimismo melodico tipico delle correnti più cool? Esiste un punto di incontro o di rottura tra queste due anime del jazz?
EP: È vero. Per un lungo periodo, almeno fino all'incontro con Chet Baker, ero molto più orientato in una direzione "funambolica." Ma, a essere onesti, si dovrebbe aggiungere che non mi interessava solo il funambolismo, perché al centro c'era sempre il blues. Per me Charlie Parker non era solo la velocità. Parker era l'intensità, era la ricerca spasmodica di nuove possibilità armoniche, era il blues col suo senso della tensione, del dramma.
Poi, a un certo punto, "scoprii" (proprio grazie a Chet) la bellezza e la potenza espressiva della melodia. E cominciai a pormi il problema della narrazione in musica. Perché la melodia implica proprio questo, il saper raccontare. Solo che il pianoforte, sotto questo punto di vista, è strumento più ostico di una tromba, di un sax o della voce umana. Per cui, una volta capito che il virtuosismo, il muovere velocemente le mani sul piano, sono sicuramente cose interessanti, spettacolari e belle da vedere, ma raccontano poco, rimane il problema, di non facile soluzione, di far "cantare" il pianoforte. Insomma, a un certo punto della mia vicenda musicale sono entrato in crisi e ho cominciato a guardare ai suoni e all'espressione musicale in modo del tutto diverso rispetto a prima, cambiando completamente la mia estetica. Furono anni complicati, in cui il comporre ha giocato un ruolo fondamentale, sia di causa che di effetto. Per rispondere alla tua domanda, penso che il punto di incontro tra un suonare melodico e uno più virtuosistico possa essere solo l'autenticità... e naturalmente la capacità di raccontare una storia.
AAJ: Lei è stato il primo musicista italiano ad aver suonato, nel luglio 2010, al Village Vanguard di New York come leader di un trio americano, accanto a Paul Motian e Marc Johnson. Vuole condividere con noi le origini di quella esperienza, le sensazioni di quelle serate, che sono state anche le ultime di Paul Motian prima della sua scomparsa...
EP: L'esperienza di quelle serate è stata incredibile, soprattutto per un musicista europeo, perché, bisogna ricordarlo, New York è lontana, davvero lontana, non solo fisicamente. Spesso stando qui non ci rendiamo conto di quanto noi europei siamo poco importanti per loro, mentre sovente da parte nostra c'è un atteggiamento di totale subalternità. Per un europeo, per un musicista nato a Roma, essere protagonista di un evento del genere, entrare dalla porta principale in quella cultura, in quella storia, essere accettati, riconosciuti da loro, rappresenta qualcosa di estremamente emozionante. Tutto nacque da una mail di Paul Motian, il quale alcuni mesi prima di quel luglio mi invitò a suonare al Vanguard con lui e Marc Johnson. Superato lo shock mi resi conto che la cosa era ovviamente eccezionale e così chiamai immediatamente la mia casa discografica, la CAM Jazz (con cui in quel tempo lavoravo in esclusiva) chiedendo la loro collaborazione per fissare su CD quell'evento.
E di un evento vero si trattava in effetti, perché al Village Vanguard, in ottanta anni, non aveva mai suonato alcun musicista italiano in qualità di leader, e men che mai come leader di un trio di quel livello. Gli unici due europei che mi avevano preceduto in quel ruolo erano stati due grandi colleghi francesi, Michel Petrucciani e Martial Solal. Insomma, era un sogno che non avevo neanche mai osato sognare, un sogno che diventava realtà.
Avrei scoperto poi, quando ero lì, che in realtà Paul aveva dato seguito a una richiesta dell'allora ottantacinquenne (oggi novantaduenne) Lorraine Gordon, vedova del fondatore del Village Vanguard, Max Gordon, la quale aveva ascoltato il mio CD su Scarlatti e si era incuriosita, chiedendo poi a Motian di cercarmi. Questo diede a quelle mie performaces un significato ancora più ampio e particolare. Dopo il 2010 sono tornato a suonare al Village Vanguard varie volte: nel 2012 in trio con Antonio Sanchez e Scott Colley presentando il mio Permutation, nel 2013 con Marc Johnson e Joe LaBarbera, nel 2014 ancora con Scott Colley e Joe LaBarbera, poi nel 2015 in quartetto con Scott Colley, Clarence Penn e Donny McCaslin, ricavandone un altro album live, appena pubblicato, New Spring. Live at Village Vanguard. Insomma... sono di casa là.
Quest'avventura americana è una favola che dura ancora e che mi riempie di gioia. Il mio rapporto con Lorraine e la figlia Deborah, ma in generale con tutto lo staff che lavora al Vanguard, è di grande, reciproco affetto. Il locale tra l'altro è ancora vitalissimo, propone sempre un cartellone di livello straordinario, è la meta degli appassionati di tutto il mondo. Mi dispiace molto che nel frattempo il mio caro amico Paul Motian se ne sia andato. È accaduto nel 2011, in maniera purtroppo molto rapida e dolorosa per tutti. Ci manca. Era diventato ormai meritatamente una vera e propria icona suonante del Vanguard. Era una leggenda del jazz di ogni tempo.
AAJ: Come è nata invece la recente collaborazione con Bruno Canino?
EP: Io e Bruno ci seguivamo un po' a distanza. Direttamente, attraverso reciproci ascolti, volontari o casuali, e anche indirettamente. Termine, quest'ultimo, che uso sia in senso letterale (mio fratello Gabriele, violinista, ha dato numerosi concerti con lui in performances di musica da camera e mi parlava sempre di Canino) sia in un senso più misterioso, se si vuole. Credo che i musicisti, gli artisti in genere, possano avere un po' di sesto senso e possano percepire, appunto, le affinità che ci sono nell'aria... In questo caso, oltre ad ammirare l'eclettismo e la capacità di Bruno di mettersi in gioco con uguale, rigorosa profondità nei contesti più diversi, la traccia mi fu offerta dal sentire o leggere, non ricordo, un'intervista in cui gli veniva chiesto cosa pensasse del jazz. La risposta, che mi colpì molto, fu più o meno: "Mi piacerebbe suonarlo ma mi occorrerebbe una vita per imparare a farlo...." Non male pensai, soprattutto considerando quanto di solito si sente, tra lo spocchioso e il superficiale, da fonti accademiche che magari ancora confondono il jazz col piano bar. Quando sentii o lessi quella frase pensai fra me: "Chissà, un giorno si potrebbe fare qualcosa insieme... sarebbe bello con un musicista di così grande apertura mentale." Il momento arrivò nel 2013 a Napoli, città natale del Maestro. Stavo suonando in piano solo e con la coda dell'occhio riconobbi l'inconfondibile sagoma di Bruno che veniva a sedersi in prima fila. Fu un momento di vera, grande emozione. Alla fine del concerto cominciammo a parlare e penso che la nascita concreta del duo sia avvenuta lì.
AAJ: C'è stato un filo conduttore nella scelta dei brani del vostro CD Americas, pubblicato dalla CAM Jazz?
EP: L'idea è stata quella di mettere insieme in uno stesso album la musica nordamericana con quella dell'America del Sud, dando vita ad una panoramica originale e variegata dei suoni più caratteristici del Nuovo Mondo. Così Gershwin si trova accanto a Piazzolla, Copland e Bolcom sono accanto a Guastavino. È stato un viaggio musicale particolare. Dopo le esperienze con musicisti come Johnny Griffin, Chet Baker, Paul Motian, Kenny Wheeler, Charlie Haden e tanti altri, posso dire che quella con Bruno Canino, che apparentemente potrebbe non aver nulla a che spartire con queste altre, non è stata da meno per me. Non è questione di musica improvvisata o no, è questione semplicemente di... musica. Americas e il duo con Bruno Canino sono insomma per me non solo un'"altra faccia della luna" -la parte classica accanto a quella jazzistica -ma la realizzazione concreta di una visione ampia della musica, che oggi è l'unica capace di mettere chiunque in condizione di affrontare tempi non proprio facili.
AAJ: Spesso si parla del jazz come un modo di essere, un modo di stare al mondo, una filosofia di vita. Le chiedo come e quanto può essere insegnato e assimilato il jazz, e quale discrimine esiste, soprattutto in relazione alla sua esperienza, tra le cattedre, le aule dei conservatori, e i palchi dei jazz club, in termini di apprendimento e di maturazione...
EP: Tutto può essere insegnato ma l'insegnamento lo fa soprattutto colui che impara. È lo studente che deve attivarsi. Il jazz non è solo un insieme di aride informazioni che puoi acriticamente trasmettere, ma coinvolge il corpo e il cuore, oltre che la testa. Per questo nell'imparare non puoi agire soltanto passivamente. Quindi, certo, devi ascoltare gli altri, poi però devi cercare di suonare come sei tu, devi cercare di essere completamente te stesso. È quasi una forma di auto-conoscenza. In questo senso ti cambia la vita e, volendo, può essere considerato una filosofia di vita, perché diventa una ricerca di te stesso.
Ci vuole grande umiltà per impararlo perché ti mette in contatto col corpo vivo del suono, con la sua realtà, e ti costringe a cercare il tuo modo per organizzare i suoni in senso narrativo. Quindi sì, come dici tu, si può creare una discrepanza tra il jazz, inteso come linguaggio affrontato teoricamente, e la pratica viva dello stesso su un palco. Serve una particolare sensibilità per tutto questo e il jazz certamente aiuta a svilupparla perché, spingendoti verso l'improvvisazione, ti costringe ad un costante ascolto, di te stesso e degli altri. Insomma, il jazz è insegnabile a patto che lo studente sia predisposto a una grande operazione di introspezione. Tutto questo lo scopri da solo, o "rubando" a chi già possiede questa predisposizione. Diciamo che i conservatori svolgono un'utilissima opera di informazione e divulgazione. Il resto lo devi cercare tu.
AAJ: Quali consigli o indicazioni, didattiche, umane e musicali, riserverebbe alle nuove generazioni di jazzisti o anche ai giovani studenti di jazz?
EP: Consiglierei di rapportarsi al presente senza perdere di vista il patrimonio inestimabile di conoscenza regalatoci dal passato. Se si va a vedere un Caravaggio si può imparare tantissimo, nonostante un giovane pittore, nato secoli dopo, possa esprimersi in maniera totalmente differente. Paradossalmente la tecnologia oggi mette a disposizione molte risorse, ma se non scatta un interesse per il sapere la tecnologia non serve a niente. Si tende oggi a far sì che tutto ciò che c'è stato prima, anche un "prima" recentissimo, sia avvolto dall'oblio. Io credo che la bellezza sia senza tempo. Basta cercarla.
April 10, 2017 - Daniele Vogrig - All Arround JAZZ